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Che ci piaccia o meno Donald Trump ha deciso di imporre dazi del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% su quelle di alluminio. Le misure entreranno in vigore nel giro di un paio settimane. Ma l’attuale inquilino alla Casa Bianca è molto più astuto di quanto pensino i suoi molti detrattori dal momento che -in ossequio al motto latino “divide et impera”- farà figli e figliastri. Canada e Messico, partner degli Usa nell’accordo di libero scambio Nafta, saranno per il momento risparmiati, a patto che i negoziati avviati per modificare lo stesso Nafta a vantaggio di Washington si chiudano con un «successo». Da questo dato di realtà occorre partire. Strepitare al cielo non serve. Trump sta facendo quello che aveva promesso durante la campagna elettorale. Ed il bello è che dal suo punto di vista ha tutto il sacrosanto interesse a farlo. Gli Stati Uniti sono il “cliente del mondo” dal momento che negli ultimi 10 anni (fino al 2017) hanno registrato un disavanzo medio delle partite correnti di oltre 440 miliardi di dollari. Hanno cioè importato beni e servizi in misura maggiore a quanti ne hanno esportato per detto ammontare. Visto che a fronte di chi importa vi è sempre qualcuno che esporta due sono i veri fornitori del mondo. Da un lato la Cina e dall’altro la Germania. Il loro surplus medio (sempre negli ultimi dieci anni) ammonta rispettivamente a 230 e 250 miliardi di dollari. Che sommati fanno poco più del deficit americano. La Germania, ancor più della Cina, è un problema. Per l’Europa, per gli Stati Uniti e quindi per il mondo intero. Come può infatti essere possibile che un paese di 82 milioni di anime possa avere un avanzo medio delle partite correnti addirittura superiore a quello della Cina con quasi 1,4 miliardi di abitanti? Può farlo grazie all’euro. Una sorta di marco svalutato. La moneta unica è per definizione una. E quindi una media fra i valori della potenza tedesca e degli altri cuginetti del nord (Austria, Olanda, Belgio) mescolate con le debolezze del Mediterraneo (Grecia, Cipro, Spagna, Portogallo e pure l’Italia). Sopravvalutata per questi ultimi e sottovalutata per Berlino. Tutto questo si riflette ovviamente anche nei rapporti di cambio con le altre monete. Oggi servono 1,20 dollari per acquistare 1 euro. E la domanda di euro da parte degli USA è consistente visto l’afflusso di beni e servizi tedeschi anche nel nuovo mondo. Ma il prezzo di questa valuta è artificialmente basso perché sono le debolezze dell’Europa meridionale a svilirne il valore con ciò ulteriormente agevolandone l’export sia dentro che fuori l’eurozona. E’ ragionevole dedurre che qualora la Germania avesse il marco il suo prezzo in termini di dollari potrebbe rivalutarsi di un buon 20%-30%. Assestandosi quindi ad 1,44-1,56 dollari. Che in soldoni significano una cosa semplice quasi banale. Per il portafoglio di un consumatore americano una BMW da 35.000 euro costerebbe oltre 50.000 dollari per arrivare a quasi 55.000 invece degli attuali 42.000 circa. Alla luce di tutto questo appare chiaro perché Trump -appena insediatosi alla Casa Bianca- arrivò a definire la Germania una manipolatrice del cambio. E l’Italia -come al solito- è dalla parte sbagliata della barricata. Pagheremo dazio nei confronti di Washington per il semplice fatto di condividere con Berlino una moneta che per nostra sfortuna non ci avvantaggia. Quindi “cornuti e mazziati” direbbero a Napoli. Essendo l’euro -oltre che un marco sottovalutato – prima di tutto una lira sopravvalutata. Pensare che l’Unione Europea possa reagire rendendo più costose le importazioni di jeans, Harley Davidson e whisky è semplicemente ridicolo. I primi a non volere più l’euro sono gli Stati Uniti. Sono il cliente del mondo e dell’Europa. Se andassero fino in fondo con la loro battaglia commerciale estendendo i dazi ad ogni categoria merceologica finirebbero per vincere. Perché importano molto più di quanto esportano. A differenza di Berlino e nostra. Ed il cliente, si sa! Ha sempre ragione.